Mangiamo pesce fin da quando, millenni fa, imparammo a catturare organismi acquatici. Con l’implacabile progresso tecnologico, abbiamo raggiunto praticamente ogni angolo ‘pescabile’ del pianeta, talora con gravi conseguenze per la sostenibilità ambientale. Tuttavia, la straordinaria produttività degli oceani è tale che i pesci restano gli unici vertebrati più abbondanti di noi, il che ci rende ancora possibile l'esercizio del ruolo atavico di cacciatori-raccoglitori.
Nonostante gli straordinari progressi dell’acquacoltura, circa la metà del pesce che compriamo e mangiamo proviene pur sempre da migliaia di popolazioni interamente selvatiche, che alimentano il più diversificato mercato alimentare globale. La diversità biologica del pescato e la sua complicata rete di fornitura hanno due importantissime implicazioni: primo, la maggioranza dei consumatori di pesce finisce per avere scarsa conoscenza della biologia, demografia, distribuzione, e perfino dell’aspetto delle specie ittiche presenti sul mercato; secondo, il percorso di un pesce dal suo habitat naturale al nostro piatto è assai difficile da tracciare. Questi due fatti, semplici nella loro essenza e stimolanti dal punto di vista ecologico e socio-culturale, rappresentano delle barriere alla sostenibilità della pesca e dei sistemi alimentari del ventunesimo secolo.
In questa occasione, rifletteremo su come il DNA – la molecola che ci insegna come la vita si sia diversificata in tutte le sue forme – e l’applicazione di biotecnologie sempre più sofisticate ci abbiano permesso di monitorare la diversità, la sostenibilità e la legalità dei prodotti ittici distribuiti in tutto il mondo. Eppure, mentre cavalchiamo l’onda di questo progresso, ci accorgiamo sempre più che l’efficacia di queste tecnologie nel perseguire gli obiettivi di sostenibilità delle risorse marine è direttamente proporzionale alla loro integrazione con le scienze sociali e le politiche gestionali.